A Siracusa, prima che sia ora del pranzo, entrate nel Duomo. Credete, non sarà tempo sprecato. Quindi perdetevi tra le ritmate geometrie delle colonne greche – hanno 2500 anni ma li portano bene -, ammirate l’altare sfacciatamente barocco, alzate lo sguardo al soffitto che profuma di Spagna di una corrida e magari gettate pure l’occhio al candido fonte ellenistico. Allora, e solo allora, entrate infine in una trattoria e scorrete il menu: dove, pare incredibile, ritroverete gli stessi sentori moreschi e le identiche suggestioni catalane, accenni di Provenza e profumi di un suk che ricorda Tunisi. La stessa meravigliosa confusione che aleggia nel Duomo. Perché a scegliere cosa mangiare a Siracusa in Sicilia permette di fare un viaggio in un perfetto estratto dell’isola. Tra arte e sapori.
Mangiare a Siracusa: nobiltà e miseria
“Cosa ci volete fare, la nostra cucina è fatta così: a strati” ammiccano i buongustai nel cuore d’Ortigia. A sua volta cuore di Siracusa. – Tra questi strati e sedimentazioni si trovano le tracce dei popoli passati di qui ma anche i lasciti della cucina baronale e di quella della povera gente. Impronte di nobili e di zolfatari”. Due mondi confinanti ma lontani in una terra che ha sempre avuto tutto. Ma dove molti, per secoli, hanno dovuto fare i conti con il nulla. “Per i nobili lavoravano i cuochi francesi, i “monsù” – la versione dialettale di monsieur – che inventavano intingoli e preparavano menu ricchi, articolati, pieni di ricerca. Il popolo invece doveva accontentarsi di ciò che trovava nell’orto, nel mare. E tenere a bada la fame”.
Il risultato, col tempo, è stata la prova che a volte, in terre benedette, il risultato finale è migliore della somma degli ingredienti. E in questo caso, spesso, si tratta di ingredienti d’importazione. Arrivati quando la globalizzazione premeva sull’acceleratore della civiltà. Mentre l’emigrazione regalava cultura. Qui, a Ortigia, scorbutico isolotto predestinato a un destino di grandezza, otto secoli prima di Cristo arrivarono infatti i marinai corinzi in cerca di nuove terre fortunate e da quello sbarco – in un golfo così pare impossibile non gettare l’ancora – nacque una città e una nazione. E una storia che, così come accade per il Duomo, è giusto sfogliare. Per poi apprezzare meglio i menu.
Mangiare la storia
Siracusa allora, grande potenza della Magna Grecia, si sviluppò sino a guerreggiare con chi stava dall’altra parte del mare, diede una casa agli scienziati e un tetto agli artisti. Di qui passarono i tiranni, come il mitico Gelone, marinai di Atene e di Cartagine, i Romani e San Paolo sulla via di Roma. E poi ancora i bizantini e gli arabi, i normanni, gli Angioini e gli Aragonesi, i Savoia e i Borbone e infine, ma qui è storia dell’altro ieri, il regno d’Italia.
Sembra solo un elenco: ma in fondo è anche una lista della spesa. Chè ciascuna di queste genti ha lasciato una traccia di se nelle strade e nei vicoli. Ma pure, forse soprattutto, nei piatti.
I profumi del lungomare
Oddio: non che la storia non si respiri anche nelle vie. E non serve neppure chiedersi dove mangiare a Siracusa ma basta perdersi tra i vicoli della città vecchia per fare un salto nel tempo. E talvolta anche nello spazio. Cos’è il lungomare Ortigia, quello che si affaccia direttamente sul Mediterraneo, se non un appetizer dell’Avana e del suo Malecon? Provate a percorrerlo nelle giornate di maestrale, quelle che per i marinai sono una maledizione che incatena in porto e per i romantici un batticuore di schiuma e vento: da un lato le vecchie case di calcare bianco, dall’altro l’azzuffarsi delle onde. Dice chi ci abita che, talvolta, in quel punto l’acqua si colora di viola.
Oppure buttatevi nel reticolo dei vicoli della Giudecca, l’antico Ghetto, o tra i palazzi storti del vicolo del Labirinto. Il nome dice tutto. E il profumo del vento non sa decidersi tra Tunisi e Siviglia.
Il pesce nel Dna
“Quello che è certo è che atmosfera di Mediterraneo. Anche se poi mangiamo il pesce crudo ben prima che ce lo venissero a raccontare i giapponesi”, spiegano i pescatori scaricando le loro cassette di squame. “Da sempre, sulla barca, abbiamo mangiato il pesce appena catturato, magari marinandolo appena col limone. Ora è di moda e sembra una scoperta che viene da lontano. Ma qui a Siracusa, mangiare il pesce fresco è nel Dna”.
Una conferma, se ce ne fosse bisogno, la si trova in piazza Pancalli, dietro il tempio di Apollo, monumento del VI secolo sopravvissuto alle angherie dei tanti che a rotazione lo hanno profanato provando a trasformarlo in chiesa, moschea, deposito, caserma. Senza riuscire a rubargli un grammo della sua olimpica anima greca. Li, dietro le smisurate colonne, rimbomba ogni mattina il richiamo cantilenante del mercato coi suoi pescivendoli e fruttaioli, venditori di olive e formaggiai. E’ confusione di suoni ma anche di odori.
Tra trionfi di melanzane e pomodori di Pachino, pistacchi di Bronte e olive Iblee e Moresche, caciocavalli ragusani e salami di maiale dei Nebrodi, le donne contrattano la spesa per il pranzo. Il cartellino del prezzo è esposto. Ma quasi nessuno rinuncia a chiedere: “A quanto me lo mette?”.
Il tesoro del mercato
“Una volta qui il settanta per cento della gente viveva di pesca, ora sono rimasti in pochi ad uscire con le barche -spiegano al mercato. – Il mare è sempre più sfruttato e maltrattato. Alla fine le reti salpano semivuote e il pesce non si trova”.
Sarà vero: ma una passeggiata tra i banchi di questo, come di altri mercati siciliani, sembra regalare, almeno a chi viene da lontano, la sensazione di una scelta sterminata e golosa di pesce azzurro e minutaglia da zuppa, cozze saporite e tenaci patelle, gamberi fiammeggianti e polpi più che freschi: ancora vivi. Mentre il rostro puntato verso l’alto di un pesce spada evoca antiche battaglie da canzone dialettale.
“Non possiamo non ammetterlo: il pesce è il simbolo della nostra cucina – è il racconto. – Ecco perché se dovessimo descrivere la città a tavola più che di un piatto dovremmo parlare di un carattere. Ovviamente marinaro”. Come dire: mangiare a Siracusa è un modo per conoscere l’anima della città.
La Sicilia e l’idea di mare
Un carattere forte, semplice. Fieramente popolare. “Pensiamo agli spaghetti alla siracusana, quelli veri: acciughe, aglio, prezzemolo e mollica sbriciolata dorata in padella. O ancora il sugo alla matalotta : la parola viene dal francese matelote e indica un piatto a base di pesce. Ma la differenza è che qui si è sempre usato il pesce povero, quello sbagliato, magari rotto nel districarlo dalle reti. Quello che restava ai pescatori dopo la vendita al mercato e che finiva nella zuppa con i pomodorini, con i capperi sotto sale e il prezzemolo“.
Allora era tirare la cinghia, ora è un piacere da sbocconcellare piano, apprezzandone ogni sfumatura. Concedendosi poi il lusso di un lento passeggiare tra borghi stretti, e mai diritti, fino all’austero e misterioso rigore del castello Maniace, voluta da Federico II a difendere la punta di quella che fu una isola e ora è solo il centro di una città. Che pur se si bagna in mare resta sempre saldamente ancorata alla sua terra. La terra scavata e traforata come una trina di calcare delle latomie, le cave millenarie da dove viene la pietra che regala la luce bianca alla città, ma anche la terra dove si declinano le mille sfumature di verde degli ulivi che invadono la campagna. Quella da cui ogni giorno sgorga una ricchezza che rende grande la tavola. E, straordinaria geografia del gusto, il nome di ogni paese è un ingrediente da ricordare.
Mangiare a Siracusa. Prima di vivere il teatro
Ecco, forse è proprio la memoria l’ingrediente segreto di questa città e di questa terra. Che si è conquistata il vanto di essere patrimonio dell’Umanità e che, con caparbietà da innamorata, dal 1913 continua ogni anno a mettere in scena la lotta senza pace di Antigone o la furia di Medea. Così, quando tra maggio e giugno, nella bolla di suono e di sole del monumentale teatro greco, uno dei più grandi al mondo, echeggiano i versi di Sofocle nessuno avrebbe da ridire nell’intravvedere, al largo, le vele squadrate delle triremi arrivate dal Pireo che si affrettano verso la riva.
E’ un gioco, certo, ma un gioco che ti innamora, che regala emozioni a cui è bello abbandonarsi. Come imperdibile è sedere a mirare il tramonto sul lungomare Alfeo, a due passi dalla fonte Aretusa, mitica sorgente d’acqua dolce che si mescola al salmastro e che già dal nome – da queste parti è d’obbligo – evoca amori di ninfe e sgarberie di dèi mentre, nelle ore lunghe delle notti d’estate, quel lungomare diventa il palcoscenico della movida della città. Quella che guarda avanti e pulsa di musica e voglia di vita dei giovani che si ritrovano per guardare e farsi guardare. Gli stessi giovani che oggi, forse, non si rendono neppure conto del nuovo corso di questa città che per troppo tempo, legata al passato, non ha saputo coniugare i verbi al futuro.
Cosa e dove mangiare a Siracusa in Sicilia: la bellezza del Duomo
“Basta tornare a dieci anni fa quando l’Ortigia pareva spenta, abbandonata, per capire la differenza”, ricorda un cliente seduto al sole del caffè “La piazza“, proprio di fronte al Duomo. “Ora, molti palazzi sono stati restaurati, molte vie bonificate”. E che qualcosa si muove lo si capisce facilmente notando, sulle mura ricamate delle case antiche i cartelli delle agenzie che, magari in grafia plurilingue, propongono vendite e ristrutturazioni, mentre ogni angolo di vicolo è un incontro con un bed & breakfast.
Ed è forse proprio da qui, da questa rinnovata voglia di rifarsi il trucco, che riparte Siracusa, “città di marinai e di contadini costruita su un isolotto”, come scrisse Elio Vittorini, uno dei suoi più celebri figli. In lontananza si vedono le luci delle raffinerie del polo petrolchimico che, per decenni, hanno regalato sviluppo economico in cambio di inquinamento e bruttezza ma è facile distogliere lo sguardo. A quel punto, quando l’ora blu invade l’orizzonte, arriva anche il momento di cominciare a pensare ad un aperitivo che accompagni al rituale della cena. Qui, per fortuna, si mangia tardi e c’è anche il tempo di buttare per l’ultima volta l’occhio alle colonne del Duomo.
Decidere cosa e dove mangiare a Siracusa in Sicilia significa cercare, in un sapore che viene da lontano, il piacere di farsi prendere e portare via. Anche nel tempo.
I ristoranti da provare a Siracusa
Ristorante Dioniso
Se volete un tuffo nei sapori della città e di questa parte di Sicilia il ristorante Dioniso, vicino a Porta Marina, è il posto giusto. Si respira una aria sincera e appassionata mentre il menu offre i classici elementi della gastronomia locale. Servizio attento, bella carta dei vini.
Via Claudio Maria Arezzo, 29
0931 24679
Don Camillo
Don Camillo è nato nel 1985 e da allora è diventato un punto di riferimento in città per chi ama mangiare bene. L’ambiente è molto suggestivo e le pareti sono coperte di bottiglie scelte tra le 800 etichette in carta. Se volete un piatto da non dimenticare provate gli spaghetti delle sirene con gamberi e ricci.
Via della Maestranza, 98
0931 67133
Trattoria La Foglia
L’ambiente è una casa mediterranea nel cuore dell’Ortigia, la cucina è quella della tradizione, il pesce quello pescato. E poi erbe e spezie e un approccio accogliente che prevede anche proposte vegetariane tra libri di cucina vintage e ricordi di Siracusa come era.
Via Capodica 29
0931 66233
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